sabato 28 agosto 2010

Teatro di regia, teatro d'opera, creazione musicale, arti figurative all'inizio del Novecento: aspetti, influenze di sfere estetiche contigue, esperienze e collaborazioni significative.


All'aprirsi del secolo XX l'arte europea appare attraversata da profonde inquietudini e fermenti di trasformazione, che generano l'apertura di nuove prospettive, tese ad un rinnovamento dei linguaggi espressivi sentito sempre più come un'esigenza vitale.
Il teatro d'opera fin de siècle ha visto l'evolversi dell'aspetto visivo e scenico degli allestimenti, l'aumento dell'incidenza di scenografia e messa in scena all'interno di uno spettacolo via via più complesso, dalle mille sfaccettature; il contatto con la regia teatrale ha dato il via a sperimentazioni e collaborazioni destinate a scrivere pagine fondamentali dell'arte novecentesca.
Un elemento che accomuna le esperienze artistiche del primo trentennio del secolo XX è l'interazione fra i diversi aspetti della cultura delle cosiddette ‘avanguardie’: pittura, musica, letteratura, teatro, danza partecipano di un generale rinnovamento nel  gusto e nelle  estetiche che coinvolge e fonde  le diverse forme espressive in un organismo vivo, efficace, completo.  È possibile, infatti, individuare, nella ricerca di sintesi fra le diverse componenti di uno spettacolo, un fil rouge che attraversa le nuove estetiche che vanno delineandosi nel mutevole panorama europeo di inizio Novecento.


Il regista austriaco Max Reinhardt  è una figura di  fondamentale importanza all'interno del movimento di reazione alla pesantezza del teatro di stampo naturalista. Quest'ultimo, nato dall'applicazione dei principi de Il naturalismo a teatro (1881) di Émile Zola ad opera del Théâtre Libre di André Antoine, proponeva una messa in scena che garantisse la verosimiglianza del dato materiale ed interpretativo; di qui l'introduzione del concetto di «quarta parete» nella delineazione di uno spazio scenico chiuso ed autosufficiente, cui il regista assicurasse coerenza ed unità stilistica  Reinhardt ebbe modo di conoscere a fondo la poetica naturalista all'interno della Freïe Bühne, il teatro fondato a Berlino da Otto Brahm; ben presto, però, egli sentì di doversene allontanare, per avvicinarsi al teatro espressionista e simbolista.   Brahm aveva lanciato Hauptmann ed Ibsen, Reinhardt portò in scena Wedekind, Strindberg, Hoffmannsthal, Maeterlinck; il regista austriaco si impegnò per superare lo stile oggettivamente psicologizzante del proprio maestro e la sua insofferenza nei confronti dell'immaginazione, e creò un teatro di fantasia, leggerezza e cromatismo.  La prima regia firmata da Reinhardt fu la pièce di Maeterlinck Pélleas et Mélisande (1903): lo stesso dramma del quale Debussy aveva trasformato le atmosfere astratte ed indefinite in una musica rarefatta, ambigua, priva di precise caratterizzazioni.  In effetti il mistero che avvolge i personaggi dei testi di Maeterlinck, la loro mancanza di identità, che li rende simboli di un discorso quasi metafisico, ne fece soggetti ideali per il regista che, prendendo le distanze dal naturalismo, riconobbe in espressionismo e simbolismo i linguaggi ideali per affrancare il teatro.
Allo stesso modo Reinhardt trovò un fertile terreno di sperimentazione nei lavori teatrali di Hugo von Hoffmannsthal: nelle multiformi suggestioni poetiche del drammaturgo Reinhardt vide la possibilità di creare spettacoli dalle molteplici risorse, rinnovando i propri linguaggi nel segno di una ricerca costante e diversificata, che rifugge da qualsiasi schematizzazione. 


Per quanto riguarda più specificamente il teatro musicale, il nome di Reinhardt si intrecciò con quello di Richard Strauss fin dalla prima rappresentazione della pièce di Oscar Wilde Salome, allestita dal regista austriaco nel 1902 nel suo Kleines Theater di Berlino. Strauss si appassionò immediatamente al soggetto, intriso di cupa sensualità e di ambigue suggestioni, e ne fece un atto unico dall'intensa elaborazione compositiva, incalzante nel dispiegarsi di una trama sinfonica serrata, sostenuta da un'orchestra di enormi proporzioni.  Dopo Salome, Strauss mise in musica un altro lavoro che  Reinhardt aveva diretto, il dramma di Hugo von Hoffmannsthal Elektra: ebbe inizio, in questo modo, una lunga e feconda collaborazione (ben sei opere), che diede modo al compositore  di percorrere strade nuove e sperimentare linguaggi differenti, avvalendosi di una ‘parola poetica’ multiforme e libera da soffocanti vincoli semantici.   Reinhardt firmò la regia delle premières di Der Rosenkavalier (Dresda, 1911) ed Ariadne auf Naxos (prima versione; Stoccarda, 1912): due opere che mostrano una concezione lirica totalmente differente rispetto ai due precedenti lavori di Strauss. Nel Cavaliere della Rosa il compositore si propone, con l'appoggio di Hoffmannsthal – cui viene richiesta la stesura di un libretto «mozartiano», che guardi alla tradizione dell'opera buffa  –  di ricreare un'atmosfera settecentesca, mediata da un raffinato gusto ‘viennese’ e da un'originale vena inventiva. L'orchestra  è priva della tragica grandiosità di Salome ed Elektra: si presenta ricca di colore, elaborata, ma ricondotta a proporzioni normali, nel segno di un cambiamento di gusto che si estenderà al trattamento di Ariadne, in cui l'orchestra assume proporzioni quasi cameristiche.  Qui il gioco, la parodia, la commistione di elemento tragico e comico (tragedia greca e Commedia dell'Arte) dominano l'intera opera; si viene a creare, in questo modo, un meccanismo metateatrale che, pur in una prospettiva arcaizzante, dà vita ad una drammaturgia di taglio sperimentale.
Tutto questo permette di gettare un fascio di luce su differenti tendenze  ed  orientamenti assunti da Strauss, da un lato, e dallo stesso Reinhardt: troppo spesso si tende infatti ad ‘etichettare’ in modo superficiale un percorso artistico in realtà complesso e multisfaccettato come quello delle nuove correnti espressive di inizio Novecento.  La ricerca di modi stilistici innovativi e la definizione di poetiche  in apparenza ‘eversive’ nasconde spesso, in effetti, una ricerca che non vuole essere distruttiva nei confronti di una tradizione che rappresenta, al contrario, un punto di partenza (seppur da superare) ed un patrimonio cui attingere.  Così, il Settecento dell'opera buffa diventa, ad esempio, un passato cui guardare ed al quale prendere in prestito forme e modi espressivi, filtrati, peraltro, da una sensibilità differente; lo stesso Reinhardt  firmò la regia di drammi stilisticamente molto lontani fra loro, dimostrando notevole apertura e capacità di riproporre in modo originale opere afferenti ad epoche passate.  Così, la regia per Ariadne auf Naxos diventa occasione per un'elaborazione pluristilistica che ha un precedente nella ripresa (Berlino, 1911) della fiaba settecentesca del veneziano Carlo Gozzi Turandotte : Reinhardt rilesse il dramma della principessa cinese allestendo una mise en scène sospesa tra grottesco e fantastico, attuando un procedimento di esteriorizzazione che attrasse l'attenzione di musicisti come Busoni e  Puccini.
La regia di Reinhardt si muove, insomma, nel segno di una ricerca costante, dell'astrazione e del potenziamento dei valori formali; la sua estetica mira ad una suprema sintesi fra parola, musica, danza, colori, gesto, scenografia. 
È interessante notare i punti di contatto con la ricerca condotta in quegli stessi anni dal gruppo di artisti, musicisti, coreografi riunito da Sergej Djaghilev sotto il nome di «Ballets Russes». Le esigenze di rinnovamento della danza, che partivano dal presupposto di fondere sulla scena tutte le arti facenti parte dello spettacolo, nascevano nel tentativo di superare una tradizione peraltro mai negata: basti pensare al fatto che lo stesso Djaghilev volle      allestire, nel 1921 (diversi anni, dunque, dopo il debutto parigino dei «Ballets», avvenuto nel 1909), una ripresa del ‘balletto romantico’ per eccellenza, La bella Addormentata  di Čajkovskij su coreografie di Marius Petipa: vale a dire del protagonista incontrastato – per oltre mezzo secolo – della danza accademica russa.  Sarebbe, quindi, profondamente riduttivo vedere in Djaghilev lo scardinatore del sistema coreutico tradizionale; il codice accademico della danza andava semplicemente liberato da pesantezze e stereotipi, quali ad esempio il primato scenico dell'étoile rispetto agli altri ballerini oppure il soffocante decorativismo delle messinscene di stampo naturalista. Del resto, tra i numerosi artisti chiamati a questo scopo da Djaghilev, i coreografi di spicco risultano essere ballerini formatisi proprio alla prestigiosa scuola del Teatro Marijnskij, diretta fino al 1903 da Petipa: Fokine, Nijinskij, Balanchine, ciascuno ispirato da correnti differenti (Nijinskij avvicinabile al gusto fauve, Balanchine a quello neoclassico) ma tutti ugualmente coinvolti in un esperimento che avrebbe segnato profondamente la cultura europea. 
La valorizzazione espressiva  appare come una sorta di ‘denominatore comune’ nelle esperienze artistiche della compagnia di Djaghilev e del regista Reinhardt, nonché – con mezzi ed esiti differenti – di quelle delle cosiddette ‘avanguardie’ pittoriche e musicali dell'epoca.  È interessante notare come le sperimentazioni ed i percorsi  individuali e collettivi degli artisti si intreccino, in questo periodo, in importanti collaborazioni: grazie all'intuito di Djaghilev (allievo di Rimskij-Korsakov e, dunque, fornito di  preparazione musicale, a testimoniare la volontà di fusione tra le arti) venne alla luce il genio di Igor Stravinskij, che scrisse le pagine più significative per i balletti della compagnia.
Nel percorso di Stravinskij – accostato, peraltro, a quello di Picasso, per le sorprendenti analogie nel susseguirsi dei ‘periodi’ e dei cambiamenti di gusto – si riscontrano tutte le contraddizioni proprie della cultura musicale di inizio Novecento, sospesa tra modernismo e tradizione. È possibile scorgervi, come spesso è stato indicato,  una sorta di graduale ritorno al passato in considerazione delle ultime opere di stile ‘neoclassico’ e contrappuntistico?  In realtà sarebbe preferibile guardare all'esperienza stravinskiana come ad una continua evoluzione, attuata nel segno di una ricerca espressiva aperta e diversificata.  Se i primi lavori possono essere avvicinati al gusto degli eversivi pittori fauve per il colorismo a volte esasperato ed il dominio di un ritmo parossistico, violento (Pétrouchka, 1911, con coreografie di Fokine e scene di Aleksandr Benois; Le Sacre du printemps, 1913, con la selvaggia e spigolosa coreografia di Nijinskij), si assiste, poi, ad una svolta nel segno di una rinnovata chiarezza formale (L'histoire du soldat, 1918, è stato paragonato al cubismo per la sua prospettiva strutturale essenziale, definita); il balletto Pulcinella (1920) apre, quindi, il cosiddetto periodo ‘neoclassico’, che guarda al Settecento italiano contaminandolo con invenzioni di stampo politonale, in un gioco a metà tra citazione, parodia e metateatro. La ‘riscoperta’, infine, da parte di Stravinskij della scrittura contrappuntistica di Bach – che influenza soprattutto le opere strumentali – sembrerebbe negare la precedente esperienza del compositore, che propone, ora, una visione costruttivista e meccanicista della musica (Poétique musicale: musicista come artigiano, «homo faber»); in realtà, è necessario ricollegare le diverse tendenze che attraversano la produzione di Stravinskij  a quella contraddittorietà che caratterizza le esperienze artistiche sviluppatesi tra fin de siècle ed inizio Novecento. Il continuo confrontarsi con un passato troppo ‘ingombrante’ per essere semplicemente superato, la ricerca di nuovi stilemi espressivi, il tentativo di pervenire ad una visione dell'arte che trascenda i particolarismi e fonda i diversi linguaggi in un disegno unico: tutte queste problematiche attraversano, con esiti differenti, le correnti artistiche e di spettacolo dei primi decenni del XX secolo.  Gli stessi «Ballets Russes», che riunirono coreografi, musicisti, pittori, scenografi nel segno di una ricerca costante ma tesa a superare il concetto stesso di ‘avanguardia’, si presentano ad un attento esame come un punto di partenza, piuttosto che un traguardo.  Ciò che maggiormente colpisce, nella variegata compagine diretta da Djaghilev, è, all'interno di un percorso di ricerca diversificato e ‘multidirezionale’, l'innegabilità di un unico principio di base: la volontà di conferire a ciascuna arte una libertà di azione e di espressione, in modo che si possano svilupparne pienamente tutte le risorse  e le potenzialità. 


Questa stessa prospettiva emerge – pur in un contesto differente – nella ricerca condotta in quegli stessi anni dal gruppo di artisti, musicisti, poeti e ballerini riunitisi intorno a Vassilj Kandinskij.  Quest'ultimo, orientato verso nuove forme artistiche in grado - una volta libere da formalismi - di esprimere l'interiorità, proponeva un'estetica fortemente orientata verso la sintesi delle arti; la musica occupava un ruolo principe all'interno delle sperimentazioni condotte da Kandinskij, sia durante l'esperienza del gruppo del blaue Reiter che, più tardi, al Bauhaus di Walter Gropius (qui, addirittura, le partiture venivano ripensate in veste sinestesica, con l'associazione di note musicali, forme, colori, effetti luministici).   Emblematico e rivelatore di quest'interesse nei confronti dell'«arte più immateriale» (Sullo spirituale nell'arte, 1911) fu l'interesse manifestato da Kandinskij nei confronti delle sperimentazioni attuate contemporaneamente da Arnold Schönberg e dal suo circolo. L'incontro dei due artisti dètte il via ad una collaborazione  fondamentale per la delineazione dei principi dell'espressionismo musicale e per la sua conseguente attuazione in opere come Erwartung, Die glückliche Hand, Pierrot Lunaire.
Per quanto riguarda la ricerca di Schönberg, essa persegue l'emancipazione della composizione musicale nei confronti di un sistema armonico accettato universalmente ma, di fatto, costituente soltanto una tra le tante possibilità; come per Kandinskij, in pittura, lo spazio risulta privo di un centro di  riferimento visivo, così per Schönberg lo spazio sonoro si presenta privo di un centro tonale.  Un'estetica di questo tipo si traduce, nell'ambito del teatro musicale, in forme dominate dall'asimmetria e dalla totale libertà del gesto espressivo: così, in Erwartung (1909) assistiamo ad un «monodramma» in cui il mondo psichico dell'unico personaggio si rispecchia nella discontinuità della partitura e nella gestualità fortemente enfatizzata; in Die glückliche Hand – il lavoro  forse più rappresentativo della collaborazione tra Schönberg e l'amico Kandinskij – la complessità drammatica si traduce in forme maggiormente riconoscibili per via delle differenti scritture, ma non per questo meno cariche di lacerante espressività. In particolare, questo dramma si fa portavoce di quel tentativo di dar vita ad un «rappresentazione totale» che si è indicato come prioritario nella ricerca dei due artisti, in linea con le tendenze dello spettacolo  europeo di inizio Novecento: non soltanto Schönberg stesso schizzò i bozzetti per scene e costumi, traducendo in visioni allucinate le suggestioni del testo e della musica, ma l'intera partitura della glückliche Hand si presenta ricca di minuziose indicazioni di regia.  Attraverso questo sistema, interpretazione, direzione orchestrale, scenografia ed illuminazione vengono poste sullo stesso piano ed, anzi, coordinate, in modo da realizzare una messa in scena che fonda in un'unica prospettiva parola, azione, suono, gesto mimico ed effetti visivi.
L'importanza dei giochi di luce e colore all'interno di Die glückliche Hand (la partitura presenta addirittura appositi segni indicanti l'utilizzo dei riflettori) introduce un'ultima riflessione sul rapporto fra teatro di regia e creazione musicale nel primo ventennio del XX secolo. L'illuminotecnica,  a lungo considerata un'arte accessoria, atta semplicemente ad accompagnare lo spettacolo teatrale, acquista a cavallo di secolo importanza ed emancipazione, grazie all'operato dello scenografo svizzero Adolphe Appia.  L'approccio di Appia  al teatro avviene attraverso l'esperienza musicale, ed in particolare prende corpo nella forma ‘totale’ suggeritagli dall'opera di Wagner ( a questo proposito è interessante notare le analogie con gli inizi di carriera di Djaghilev, avvicinatosi al mondo teatrale per aver curato alcuni allestimenti wagneriani a Pietroburgo...); la musica, secondo lo scenografo, necessita di rispecchiarsi in forme e spazi visivi che ne esaltino le caratteristiche.  Di qui l'interesse per l'illuminazione, percepita come il mezzo per esaltare la tridimensionalità dei corpi: grazie all'incontro con Jean-Jacques Dalcroze, il fondatore della danza ritmica, Appia si avvicinò allo studio della plasticità e del movimento, giungendo a creare i celebri ‘spazi ritmici’ per scenografie fortemente evocative, atemporali.  La sperimentazione di Appia destò l'interesse delle avanguardie e dello stesso Max Reinhardt,  e gettò le basi per una rivalutazione dell'apporto semantico dell'illuminazione all'interno degli allestimenti; come si è detto, proprio la luce riveste fondamentale importanza per Schönberg; è, inoltre, impossibile non scorgere un punto di contatto fra l'esperienza dello scenografo  svizzero, mediata dalla danza, e la ricerca dei Ballets Russes di Djaghilev, che proprio dalla danza trassero suggestioni e spunti da estendere alle altre arti.
In conclusione, credo di poter affermare che non sia possibile scindere l'evoluzione della regia teatrale dalle contemporanee esperienze e sperimentazioni che interessarono la creazione musicale del teatro d'opera tra fin de siècle ed inizio Novecento.  Né si devono sottovalutare, come si è detto, le contraddizioni insite all'interno di un'epoca in cui tradizione ed innovazione si confrontano, entrano in conflitto, producono contaminazioni stilistiche e generano differenti riflessioni teoriche;  in questo senso va considerato il cambiamento dell'incidenza della regia e della mise en scène all'interno degli allestimenti operistici, un cambiamento considerato in una più ampia prospettiva di influenza di sfere estetiche contigue quale, come si è visto, si riscontra nell'intera produzione teatrale di inizio secolo: si parla dunque di musica, ma anche di pittura, scenografia, gestualità, danza, il tutto analizzabile dal punto di vista della costruzione di uno spettacolo che riunisca in sé le suggestioni proprie di ciascuna delle esperienze artistiche che concorrono alla sua creazione (IC).

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